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buccia

buccia@spesanet.com


Oct 30, 06 - 12:00 PM
C'era una volta - seconda puntata

Il fascino della fiaba non cattura solo i bambini ma coinvolge anche gli adulti: tocca antropologi, demologi, psicologi, psicanalisti, storici, critici letterari, narratori...

Nel “leggere” la prima favola trascritta, sorge spontanea una riflessione: il racconto popolare è fatto per essere detto e non per essere letto. Il valore antropologico della favolistica sta nel riprodurre i testi esattamente come sono stati detti dal narratore popolare.
I racconti popolari calabresi del libro sono state tratti dalla BIBLIOTECA DELLE TRADIZIONI POPOLARI CALABRESI. Sono stati utilizzati i racconti apparsi in 4 volumi dal 1953 al 1963. Tale opera è una delle prove più importanti del folklore regionale: non solo per il numero dei racconti (si tratta di 340 storie) ma per la trascrizione in dialetto con le stesse parole usate dal narratore (a dimostrazione di una consapevole coscienza filologica). Di ogni racconto viene detto il nome del narratore, il paese d’origine e spesso viene indicata anche la sua condizione sociale e di alfabetizzazione.

Le storie delle favole ripetono schemi fissi. E tali schemi sono espressione di civiltà e ambienti culturali specifici. Le fiabe testimoniano la società e il mondo in cui vengono elaborate, e quindi costituiscono documenti utilissimi per la conoscenza dell’orizzonte culturale che riflettono.
A conferma di ciò, si può notare che nelle conversazioni quotidiane a volte capita di riflettere espressioni mutuate dalle favole.

Qui di seguito riporto la seconda favola che ho selezionato: IL RICCIO E LA VOLPE.

Una volta successe che una volpe, per quanto astuta, venne giocata da un piccolo riccio di terra. E sentite come.
Un giorno cominciò a diluviare così forte che pareva che il cielo si fosse proprio rotto. La volpe s’era riparata in una tana in cui poteva starci appena appena. Guardava come il buon Dio mandava giù quella pioggia ***** e senza risparmio, quando a un tratto sbucò da un cespuglio un riccio tutto fradicio. Faceva pietà a vederlo. Arrivato vicino alla tana, disse con voce lamentosa alla volpe:
“Eh, comare volpe! Mi fai riparare nella tua tana finché non torna il sole?”
“Eh, compare mio” gli rispose la volpe “non è possibile! La tana è tanto stretta, che da sola mi posso muovere appena appena.”
“Ma io voglio riparare soltanto il mio piccolo muso!” disse il riccio.
“Quand’è così, fa’ pure” gli disse la volpe.
Il riccio si avvicinò e infilò il suo musino nella tana; ma poi, a poco a poco, mise dentro la testa.
Dal cielo intanto l’acqua continuava a cadere a secchi. Per commuovere la volpe, il riccio le disse:
“Non vedi quanto sono piccolo? Fammi entrare, ché ti prometto che mi raggomitolo in un cantuccio e non ti do nessun fastidio.”
La volpe si commosse, si rannicchiò e gli fece posto. Il riccio per un poco si stette così rannicchiato, che in verità non dava fastidio; ma poi, a poco a poco, cominciò a gonfiarsi e a mettere le sue spine fuori. A mano a mano che le spine del riccio si rizzavano, la volpe si rannicchiava, per non pungersi. Ma il riccio si gonfiava sempre più e la volpe, poveretta, più si stringeva in se stessa per non essere punta da quelle maledette spine. Alla fine la volpe non ne poté più e sbottò:
“E allora, come la mettiamo, compare riccio? Tu mi stai tormentando con le tue maledette spine.”
“Cosa vuoi da me, comare mia?” disse il riccio. “Così son fatto io!”
E mentre diceva questo, continuava a gonfiarsi, a gonfiarsi. Quando la malcapitata volpe si vide tutta gocciolante sangue, alzò la voce e minacciò di cacciarlo via. Ma il riccio esclamò:
“Eh, comare, non hai dunque capito che chi si punge se ne deve andare fuori?!”
La volpe, pur essendo la padrona della tana e nonostante piovesse, fece un salto e corse fuori all’aperto.


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