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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
Gaetano Inserito il - 29/10/2013 : 17:08:42

Qui
quando la città è più festosa
e la folla più allegra,
penso alla campagna lontana,
laggiù, fra i miei monti,
dietro il mare azzurro.

Penso ai sentieri verdeggianti,
alle siepi odorose,
alle lodole che brillano al sole,
alla canzone solitaria
che sale dai campi,
monotona e triste
come un ricordo d'altre patrie.

Penso a quell'ora dolce del tramonto,
quando l'ultimo raggio
indora le nevi della montagna,
e il fumo svolgesi dai casolari,
e le campane degli armenti
risuonano nella valle,
e la campagna si nasconde
lentamente
nella notte.

Penso a quell'ora calda di luglio
quando il sole inonda la pianura riarsa,
e il cielo fosco
di caldura
sembra pesare
sulla terra,
e il grillo
nelle stoppie
canta la canzone
dell'ora silenziosa.

Penso alle notti profonde,
alle lucciole innamorate,
al coro dei vendemmiatori,
al rumore lontano dei carri
che sfilano nella pianura
odorosa di fieno,
ai cespugli immobili e neri
come spettri
nel raggio misterioso
della luna.

Penso alle lunghe notti d'inverno
spazzate dal vento
e dagli acquazzoni,
agli alberi
che gemono
nel temporale,
e vi raccontano
fantastiche storie
cui sorridono gli occhi
dei vostri cari,
raccolti
intorno alla lampada domestica.

Penso alla mia fanciullezza,
che sembra sia tutta trascorsa
in quella nota campagna;
penso a quei colli,
a quei valloni,
a quei sentieri,
a quella fontana,
davanti alla quale
è passata tanta gente,
che veniva da lontano,
a quel cespuglio
su cui moriva
il sole d'autunno
quel giorno
in cui vi passaste
anche voi,
con me,
per l'ultima volta.

Quest'ultimo raggio di sole
che mi è rimasto in cuore
come un addio,
come la vaga angoscia
dei giorni spensierati
dell'infanzia,
che ci fa presentire
le amarezze della vita,
con un senso di vaga
e dolorosa dolcezza.

Penso a quel sasso
in cui ho segnato il primo amore
de' miei tredici anni,
quando non conoscevo ancora altri dolori
all'infuori di quelli creatimi dalla mia fantasia.

Ora che il dolore
so
cosa
sia,
il dolore
vero,
quelle che
vi immerge le unghie
nella carne viva
e vi ricerca
le fibre del cuore,
quello che
vi divorava le lagrime,
le sensazioni
e le idee,
quando la morte
entrò nella mia casa...;

penso ancora a quei luoghi,
a quelle scene serene
che vi tornano
dinanzi
agli occhi feroci
come un'ironia
nell'ora
terribile
di quell'angoscia;

penso al muricciolo
di quella fontana
al quale
si sono appoggiati
quelli che
non son più,
a quell'erba
che si è piegata
sotto i loro passi,
a quelle pietre
sulle quali
si erano seduti.

Ora l'erba
è morta
anch'essa,
ed è risorta
tante volte.

Il sole l'ha bruciata,
e la pioggia
fatta rinascere.

Quando le nuove gemme
hanno verdeggiato
nella siepe
lì accanto,
ne' bei giorni d'aprile,
essi
non sapevano
più nulla
di voi,
miei cari!

Io
che sono rimasto,
penso a quell'erba
che non è più la stessa,
a quelle pietre
che dureranno ancora,
mentre voi
siete passati
su di loro
e per sempre;

penso
che dell'altra erba
spunta
e muore
fra le pietre
della vostra fossa;

e quando penso
che lo strazio
feroce
di questo dolore
non è più così vivo
dentro di me,
che ogni strappo
dell'anima
lentamente
va rimarginandosi,
mi viene
uno sconforto
amaro,
un senso desolato del nulla,
d'ogni cosa umana,
se non dura
nemmeno
il dolore,
e vorrei
sdraiarmi
su quell'erba,
sotto quei sassi,
anch'io nel sonno,
nel gran sonno.



Giovanni Verga, “Passato!”

in Arcadia della Carità,
Editrice Pasini, 1883



Per chi vive lontano il due novembre è forse il giorno più triste.
Il pensiero veleggia nell'universo di volti invisibili (laggiù, fra i nostri monti, dietro il mare azzurro) che sentiamo ancora nostri, vivi, ma impalpabili ed eterei.
Come se quel passato vissuto insieme a loro non fosse mai esistito nella sua dimensione più tragica e dolorosa, quella del distacco.
Con una concatenazione struggente e coinvolgente di proposizioni, lo scrittore inscena nella parte finale come una rivolta alla quiete apparente con pensieri di proustiana profondità.




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