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V I S U A L I Z Z A D I S C U S S I O N E |
Gaetano |
Inserito il - 09/04/2007 : 15:25:10 L'addio di Don Antonio ci ha colto tutti di sorpresa, benché l'epilogo della sua lunga e luminosa esperienza pastorale a Sant'Agata rientrasse nell'ordine naturale degli accadimenti di una comunità.
Ciò ci addolora e ci trasmette un senso di immanente vuoto, perché ci pare difficile immaginare un gregge privo di quello che per oltre cinquant'anni è stato ed è tuttora il suo pastore.
Un gregge difficile da condurre, "il bravo popolo di Sant'Agata", che fa ancora fatica a guardarsi allo specchio e che dalle sincere e commosse parole di commiato del nostro Don Antonio dovrebbe trarre più di un motivo di riflessione.
Mi riferisco agli "enormi sacrifici, ostacolato da dissensi e resistenze provenienti da molte parti" che hanno costellato l'impostazione pastorale di Don Antonio e che, forse, in ultima analisi, lo hanno costretto ad assumere atteggiamenti apparentemente distaccati e che certo, non hanno mai frenato la sua incontenibile ed infaticabile opera.
Solo oggi ci accorgiamo di quanto egli ci ha cambiato, migliorato, arricchito e della straordinaria quantità di eventi, segni, attività che egli ha profuso su di noi e dentro di noi, quando anche illusi della nostra autosufficienza montanara, del nostro sentirci e ritenerci migliori di quello che siamo.
Egli ci lascia un'eredità tanto smisurata, quanto in parte ancora da compiersi: pensiamo alla sua lucida visione naufragata nel disinteresse generale del convento di San Francesco di Paola riportato all'antico e completo splendore.
Quante delle sue realizzazioni hanno trovato seguito fattivo in un paese per sua natura indolente, incline al chiacchiericcio ed al pettegolezzo più becero, sottomesso si alle regole, ma anarchico e cinico quando c'è da prendersi delle responsabilità, alzare la voce e tirarsi su le maniche?
Eppure egli ha seminato testardamente fino all'ultimo su un terreno fatto più di rovi e sassi che di terreno fertile, fatto più di compiacenza che di condivisione, intriso più di stucchevole alterigia che di amore e ricerca di una propria identità.
C'è da rimanere ammirati e stupefatti come in tale contesto abbia ardentemente concepito e realizzato il più improbabile dei progetti, quello di scrivere la Storia di quella che è diventata la sua "Pieve sull'Esaro": una Storia con la "S" maiuscola, monumentale, documentatissima, autorevole e destinata a consegnare ai posteri ed alla cultura più evoluta il nome e la dignità storica del nostro popolo.
Scrivendo queste brevi note non v'è nulla di agiografico. Don Antonio è un uomo e tale è stato per tutti questi anni. Ha fatto grandi cose ed è criticabile per altre che meno gli sono riuscite o che forse avrebbe dovuto astenersi dal fare. Non sempre ho condiviso alcune sue decisioni, ma niente mi fa pensare che dietro ognuna di esse non vi sia una ragione superiore ed un'assoluta buona fede.
Ricordo il mio primo campeggio alle "Magliarini", più di trent'anni fa. Ad un certo punto, comunicò ad Umberto Bosco che non Vi avrebbe partecipato senza dare alcuna spiegazione. Tutto il nostro gruppo di "lupetti" rimase sbalordito e non riuscimmo a trattenere le lacrime vedendolo ritornare a casa e noi incamminarci verso la montagna.
Capimmo poi il motivo: i genitori di Umberto non avevano permesso alla sorella di partecipare al campeggio, per cui Don Antonio decise che anche lui sarebbe rimasto a casa. Riteneva inconcepibile che ad una ragazza, in quanto tale, si vietasse un'esperienza del genere.
Anche con questi gesti "forti" egli ha modernizzato e disinscrostato il nostro paese e lo ha reso migliore. Ha accompagnato la nostra crescita spirituale ed umana rendendoci più liberi, disinvolti e responsabili, scardinando con la sua autorità morale ogni sorta di pregiudizi, aiutandoci a scoprire, sempre con molto anticipo sui tempi, il sublime paesaggio che ci stava intorno, la Montea, le sorgenti dell'Esaro, la tavola dei Briganti, luoghi d'incanto, di meditazione e di preghiera.
E' proprio l'immagine di Don Antonio celebrante tra i boschi delle nostre montagne sarà quella che sempre porterò nel cuore, quella che meglio esprime la sua irraggiungibile dimensione religiosa, l'ebbrezza di una simbiosi perfetta tra l' uomo, il pastore e la santità del creato che lo avvolge.
Così rispondo al Suo saluto, con lo sguardo genuflesso del chierichetto, con quello avventuroso dello scout, con la devozione che si deve ad un maestro e ad un padre.
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2 U L T I M E R I S P O S T E (in alto le più recenti) |
Gaetano |
Inserito il - 04/06/2013 : 14:42:22 Ho tanto pregato questa mattina per la mia parrocchia, povera mia parrocchia! – la mia prima e ultima forse, perché vorrei morire qui.
La mia parrocchia! Una parola da non potersi pronunciare senza emozione – che dico! Senza un impeto d’amore.
E tuttavia è una parola che ancora non suscita in me se non un’idea confusa.
So che essa esiste realmente, che apparteniamo l’uno all’altra per l’eternità perché è una cellula viva della Chiesa imperitura e non una funzione amministrativa.
Ma vorrei che il buon Dio mi aprisse gli occhi e le orecchie, mi concedesse di vedere il suo volto, di udire la sua voce.
E’ pretendere troppo, forse? Il volto della mia parrocchia! Il suo sguardo!
Dev’essere uno sguardo mite, triste, paziente e, mi immagino che sia pressappoco come il mio quando non annaspo più, quando mi lascio trascinare da quell’immenso fiume invisibile che ci conduce tutti indistintamente, vivi e morti, verso la profonda Eternità.
Georges Bernanos, Diario di un parroco di campagna (1936)
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Gaetano |
Inserito il - 29/05/2013 : 19:04:30 A distanza di pochi giorni siamo passati dalla gioia per il 25° di Don Carmelo, alla triste ricorrenza del secondo anniversario dalla morte di Don Antonio.
Due sacerdoti che rappresentano insieme il passato, il presente ed il futuro della nostra comunità, nella loro simbiotica continuità, nel loro intrecciarsi su un cammino comune che ci coinvolge tutti, anche chi abitualmente non ha frequentato o non pratica le funzioni religiose della Parrocchia.
E questo perché la “Pieve” santagatese avendo alle spalle una radice ed un’origine antichissima è riuscita a plasmare “una comunità caratterizzata dalla compresenza e dalla corresponsabilità dei suoi membri - e da - un accentuato spirito comunitario”.
Ciò non toglie che l’assunzione dell’arcipretura di Sant’Agata sia del tutto immune da difficoltà, anzi.
Ho ripreso questo mio post dell’aprile del 2007 allorché si era resa pubblica “la lettera di saluto” di Don Antonio dopo 53 anni di servizio nella nostra comunità.
Dei quasi 200 che ho scritti sul “nuovo forum” è l’unico che ogni tanto sento il bisogno di rileggere, poiché esprime una mia intima sofferenza nel cercare i motivi di quell’ultimo travagliato periodo.
Eppure l’ultima volta che avevo avuto l’opportunità di collaborare a fianco di Don Antonio risaliva a molti anni prima, alla mostra fotografica che avevo curato nel 1993 in occasione del IV° centenario della fondazione del Convento di San Francesco di Paola.
In quell’occasione molte volte mi aveva ripreso (come ai vecchi tempi) su come intendevo disporre il materiale o su come avrei voluto presentarlo al pubblico.
C’era in lui un’ansia ed una dedizione quasi mistica al progetto di restauro complessivo del chiostro che si manifestava in ogni piccolo particolare.
C’era un “sogno” che si è avverato solo parzialmente e ciò iniziava a dare la misura di uno scollamento tra la sua straordinaria abnegazione a quella causa e la manifesta indolenza della comunità che non lo ha sorretto come doveva e poteva.
E poi, negli anni successivi, addirittura una contestazione all’uscita del Santo nel giorno della festa più importante e quel funerale.. che ha messo in luce tutta la sua debolezza e la sua solitudine.
Nel ricordarlo in questi giorni dovremmo fare ammenda per non averlo allora reso più forte e meno solo e, nello stesso tempo, impegnarci ad evitare in futuro di commettere gli stessi errori e stringerci forte a Don Carmelo ed alla sua indispensabile missione nella nostra terra.
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